Napoli, gran seduzione anche a tavola

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spaghetti puttanesca storia

Dalla lussureggiante “pasta alla genovese” alle “alici ‘mbuttunate“, la Napoli dei fornelli è un trionfo di sapori. Una fucina di piatti saporiti e genuini, buoni per tutte le tasche. Diciamocela tutta: nella capitale della Campania Felix il menù è di quelli ricchi. E, a parte la regina pizza, la scelta abbonda. Antipasti, contorni, primi, secondi, frutta, dolce. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Siamo o non siamo nella culla della dieta mediterranea, dove grazie all’utilizzo sapiente di tesori come il pomodoro, l’olio, la pasta e la mozzarella, si sfornano prelibatezze che seducono?

Prendete gli spaghetti al pomodoro: rappresentano un po’ il “must” del made in Napoli a tavola. Ebbene questo piatto, ormai diventato l’emblema della cucina tricolore, è nato e cresciuto all’ombra del Vesuvio quando ancora esisteva il Regno delle Due Sicilie. Erano i primi anni del XIX secolo. Poco dopo, dunque, i fatti della Rivoluzione francese. Fu questo il periodo in cui la “pummarola” rivoluzionò completamente la storia dei primi piatti in cucina, sancendo, nel 1837, con tanto di pubblicazione della ricetta firmata Ippolito Cavalcanti, la nascita dei “vermicelli al pomodoro“.

Altra delizia sono gli spaghetti alla puttanesca, spettacolare portata che si prepara unendo il sapore forte e intenso del pomodoro, con acciughe, capperi, olive nere, peperoncino e prezzemolo. Una vera e propria bontà sulle cui origini si sono versati fiumi di inchiostro. Ovviamente è il termine “puttanesca” ad aver attirato le attenzioni degli esperti. Alcuni dicono che questa ricetta risalirebbe agli inizi del ‘900 e che ad inventarla sia stato il proprietario di una casa di appuntamenti nei Quartieri Spagnoli. Altri invece, fanno riferimento agli indumenti intimi che le “signorine” della casa indossavano per attrarre clienti. Capi osé e sgargianti, dai colori piccanti e seducenti. Gli stessi che, guarda caso, si ritrovano nella puttanesca (il rosso vivo del pomodoro e del peperoncino, il viola scuro delle olive, il grigio-verde dei capperi e il verde del prezzemolo). Altri, ancora, sostengono che l’origine della ricetta (e dunque del nome) sia da attribuire alla fantasia di una giovane prostituta francese la quale avrebbe etichettato così quella pietanza volendovi implicitamente e ironicamente fare un riferimento alla sua stessa “professione”. Infine, c’è un’ultima versione che farebbe risalire l’invenzione della “puttanesca” al pittore Eduardo Colucci, che negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, avrebbe ribattezzato, chissà perché, un piatto fino ad allora conosciuto come “marinara”, con quell’insolito nome, offrendolo poi agli amici e agli ospiti che andavano a trovarlo nella sua casa di Ischia.[charme-gallery]Rigorosamente partenopeo è anche un altro famoso piatto: lo “scarpariello“, una pietanza popolarissima e molto veloce da prepararsi. Era la “magnata” tipica dei calzolai (“scarpari” in dialetto napoletano, da cui il nome “scarpariello”), un mestiere molto in voga nella Napoli di inizio Novecento, soprattutto nei Quartieri Spagnoli. E lo si preparava, storicamente, il lunedì, giorno di chiusura della bottega, quando si cucinava con ciò che si aveva in casa, mettendo in tavola gli avanzi della domenica o magari gli alimenti che venivano regalati dai clienti che non avendo soldi per pagare il lavoro degli “scarpari” saldavano il conto in natura, quasi sempre con i prodotti della terra, tra i quali il formaggio. Non a caso i due ingredienti principali dello “scarpariello”, insieme alla pasta (penne, spaghetti o fusilli) sono il sugo al pomodoro (in origine in ragù) e il formaggio (parmigiano o pecorino).

C’è un altro piatto “tipico” che pure esprime a pieno titolo la napoletanità e lo spirito dei partenopei a tavola: gli spaghetti alla Gennaro, più volte citati dal grande Totò, e la cui ricetta è stata successivamente riportata nel libro della figlia del “Principe della risata”, Liliana de Curtis. Si tratta di un piatto, assicurano i soliti beninformati, nato come omaggio del popolo al Santo Patrono di Napoli. Un piatto povero. Relativamente semplice e veloce da preparare, con alla base pochi, ma preziosi ingredienti. Il pane è tra questi. Preferibilmente raffermo. Poche fettine trattate con l’aglio. Sbriciolate e infine messe a soffriggere in una padella, con due cucchiai d’olio e due spicchi d’aglio interi. Nel frattempo, in un’altra padella si versano olio, acciughe tritate e un po’ d’origano. E in questa speciale “salsa” si mettono a cuocere gli spaghetti appena scolati al dente, insieme con le briciole di pane croccante, mescolando il tutto con l’aggiunta di una manciata di basilico spezzettato con le mani. Una ghiottoneria dal gusto inimitabile ed inconfondibile. Che fa il paio con un’altra celebre pietanza made in Naples: gli “spaghetti alla puveriello“.

Da non crederci, ma mai nome fu più indicato. Certo, ad assaggiarne un boccone, non si direbbe mai che nacquero realmente come piatto dei poveri, nel secondo dopoguerra a Napoli, periodo difficile per l’antica Capitale, messa in ginocchio dalla furia degli eventi bellici con interi strati della popolazione costretti all’indigenza più nera. Fu proprio allora che questo piatto vide la luce, grazie all’inventiva dei “poverelli” che, per sopravvivere ai morsi della fame, diedero vita a una pietanza essenziale, mettendo insieme tutto ciò che avevano: uova (cotte ad occhio di bue), sugna, sale, pepe ed una manciata di formaggio grattugiato. Un condimento per gli spaghetti da leccarsi i baffi.[charme-gallery]Un altro dei piatti celebri della cucina napoletana è la “genovese” che, a dispetto del nome – a tutt’oggi ancora misterioso – è invece tipico della più antica e rinomata tradizione partenopea. La genovese è un succulento stracotto di carne (manzo, maiale ma anche vitello) dalla cui cottura si ricava la salsa con la quale si condisce, poi, la pasta (rigatoni, maltagliati, mezzanelli, ziti spezzati a mano o paccheri). Può fungere, dunque, sia da prima ma anche da seconda portata. Come tutti i piatti più appetitosi, richiede una cottura lunga. Ma è di una bontà inenarrabile. Diverse sono le ipotesi circa l’origine del nome “genovese”, anche se la più gettonata la fa risalire all’inventiva di alcuni cuochi originari di Genova che lavoravano nelle osterie insediatesi nell’area del porto di Napoli nel corso del XV secolo. Un’altra versione la fa derivare dalle abitudini alimentari dei marinai liguri che nel ‘700 sbarcavano a Napoli.  Ma non manca chi la attribuisce al nome della strada in cui questo celebre piatto avrebbe visto per la prima volta la luce, oppure, più semplicemente, al cognome del cuoco napoletano che la creò. Sia come sia, la “genovese” è tutta napoletana, dalla prima all’ultima goccia di sapore.

Napoletano, sia pure di…adozione, è anche il “gattò di patate” o, se preferite dirlo alla francese il gateau (torta) di patate. Fu Maria Carolina d’Asburgo Lorena, moglie di Ferdinando I Borbone ad introdurlo a Napoli, alla fine del ‘700, trasferendovi, lei che pure era arciduchessa d’Austria, il gusto francese e la consuetudine di affidare l’arte della cucina di corte ai “monsieurs” transalpini. Erano costoro nobili cuochi d’oltralpe che i napoletani cominciarono a chiamare sin da subito “monzù”, storpiandone, in tal modo, l’originaria pronuncia. I “Monzù” ispirati e soprattutto rapiti dai prodotti tipici locali, pensarono bene di unirli in un unico sformato (o torta salata) a base di patate, formaggio, burro, latte, uova, salame napoletano (tagliato a striscioline), provola e prezzemolo, rivestendolo di un’anima dorata di pangrattato.[charme-gallery]Nacque così quello che ormai, da allora, è diventato un piatto tipico partenopeo dal gusto ricco e a dir poco appagante.Napoletani, anzi napoletanissimi, sono anche i “purpetielle affugate“, dal dialetto “polpetti affogati”, gustoso secondo di mare della cucina partenopea che si vuole nato nel borgo Santa Lucia grazie all’inventiva dei pescatori. Anche in questo caso, la preparazione non è particolarmente complicata. Per realizzarlo occorre procurarsi dei polpi e un bel po’ di pomodori pelati, insieme ad aglio, olio e aromi vari. I polpetti si mettono a cuocere a fuoco lento insieme alla salsa di pomodori (letteralmente “affogati” nel sugo di pomodoro), all’olio, all’aglio e al sale, avendo cura di usare il coperchio della pentola durante la cottura. Quando la crema è densa e scura, bisogna aggiungere del prezzemolo tagliato finemente e continuare la cottura per almeno altri 15 minuti. Una volta pronti, i purpetielli potranno essere serviti con crostoni di pane per un ricco antipasto, ma anche come condimento per una pasta che vi farà leccare i baffi. E perché no, pure come gustoso secondo.

Un secondo, sempre di mare, sono pure le “alici ‘mbuttunate“, altro celebre piatto della cucina partenopea (‘mbuttunato, dal dialetto napoletano sta più o meno per “imbottito”). Stiamo parlando di una pietanza che merita senz’altro una citazione d’onore per il suo incredibile e travolgente sapore. Per prepararla, occorre procurarsi un buon quantitativo di alici, possibilmente quelle pregiate di Cetara, pulirle delle spine e aprirle. Nel frattempo, con la mollica di pane bagnata e pepata, si dovrà preparare un impasto a base di olive, prezzemolo, capperi e aglio. E con questo si “riempiranno” i pesciolini. A quel punto le alici “imbottite” saranno passate nelle uova battute, quindi nel pangrattato e infine in padella per la frittura. Il risultato finale vi sorprenderà.

Abbiamo citato non a caso Cetara perché è qui, lungo le sponde dell’antico borgo di pescatori adagiato vicino al mare della Costa che da Vietri porta ad Amalfi, che avviene la oramai famosissima colatura d’alici. Un trattamento particolare del rinomato pesce azzurro, messo a “maturare” in una soluzione satura di acqua e sale, da cui si ricava una salsa liquida dal sapore denso e corposo. Uno speciale elisir che ha reso Cetara famosa nel mondo. Si dice che l’arte di preparare questo condimento, di sicura origine orientale, sia sbarcata sulle coste dello Stivale in epoche lontane, forse addirittura con i nocchieri cartaginesi, prendendo il nome dal misterioso pesce Garos (molto probabile che siano proprio le alici) dal quale poi prese il nome l’intingolo che gli antichi grechi chiamarono Garon e che i romani, quando quel nettare unico sbarcò nel loro regno, chiamarono poi Garum. La colatura di alici di Cetara, discendente diretta, dunque, di quella famosa salsa, è oggi il tipico condimento della pasta e di non pochi altri piatti puntando, dopo la costituzione di uno speciale Comitato Promotore, verso il meritato riconoscimento europeo della DOP (Denominazione di origine protetta).