Paccheri e maccheroni, l’oro di Napoli

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Buona, saporita. Altamente digeribile. Facile da preparare perché amalgamata con due elementi semplici: farina di grano duro e acqua. Basta assaggiarla una volta e non se ne potrà più fare a meno. E’ “sua maestà” la pasta. Più di un nome: un mito. Alzi la mano chi non ne ha mai gustato, almeno una volta nella vita, un succulento piatto. Da Napoli a Torino, da Milano a Palermo, non esiste pranzo senza questa celebre pietanza mediterranea. Non esiste tavolata senza un bel primo a base di maccheroni al pomodoro. Si parla di pasta e si pensa al mare del Golfo, alle terre calde della Campania Felix. E’ qui che la produzione di ziti e pennette è diventata un’arte. Qui, nella terra di Virgilio e San Gennaro. Che dire dei “paccheri” di Gragnano, con trafila dorata e alta aderenza ai sughi? E i “mezzanelli” al ragù, orgoglio di Napoli? Dai Monti Lattari agli antichi opifici di Torre Annunziata, dalle terre casertane alla capitale del Regno delle Due Sicilie, l’arte dei maestri pastari ha sfornato, nel corso dei secoli, quintali e quintali di tesori del palato. Opere d’arte forgiate con farina, acqua e oro rosso. Perché è alle falde del Vesuvio che il celebre alimento ha trovato il suo regno, complice un clima secco e ventilato che ha favorito la lavorazione del più celebre degli impasti. I maccheroni, per esempio, emblema di Partenope, nonché protagonisti indiscussi di avvenimenti importanti per la storia stessa di Napoli. Si racconta che durante una festa cui era stato invitato anche Costantino Nigra, l’allora segretario del primo ministro piemontese Camillo Benso di Cavour, l’imperatrice di Francia, Eugenia de Montijo, moglie di Napoleone III, fece rappresentare una sorta di scenetta gastronomica dal suo ciambellano di corte. L’uomo, travestito da Cavour, si accomodò a una tavola apparecchiata con una serie di piatti allusivi alla situazione storica del momento: stracchino e gorgonzola (Lombardia), parmigiano (ducato di Parma) e mortadella di Bologna (Emilia). Nigra era stato inviato a Parigi dal premier piemontese, per lavorare all’ipotesi di alleanza tra il Regno di Sardegna ela Francia, in modo da progettare la guerra con l’Austria e portare, così, a compimento il processo di unificazione nazionale. Durante il pranzo furono servite anche arance siciliane. Il finto Cavour mangiò tutto, finché alla fine non gli fu servito un bel piatto di maccheroni fumanti. A questo punto il ciambellano rifiutò dicendo “No, per oggi basta, conservatemi il resto per domani”. I maccheroni rappresentavano Napoli. La cosa fu subito riferita da Nigra al vero Cavour il quale, capita al volo l’allusione dell’imperatrice, disposta a cedere la Sicilia(le arance), ma non Napoli (maccheroni), replicò: “Evidentemente i maccheroni non sono ancora cotti, ma in quanto alle arance, siamo disposti a mangiarle”. Poco dopo si arrivò alla spedizione dei Mille e alla conquista del Regno del Sud. Non appena venne il turno di Napoli, Cavour annuì sorridendo: “I maccheroni sono cotti e noi li mangeremo”. Napoli, dunque. E la Campania. Quasi una simbiosi quella della pasta con la terra fertile del Vesuvio. Tutto merito del clima. E delle correnti temperate d’aria calda che accarezzano le coste partenopee. Cosa facevano gli antichi maestri pastai? [charme-gallery]Semplice: lasciavano essiccare spaghetti e vermicelli all’aria aperta. A volte anche in strada. Le vecchie cartoline in bianco e nero di Torre Annunziata e Gragnano ci raccontano di strade e marciapiedi ingombri di filari di canne si spaghetti, lasciati ad asciugare al sole e all’aria del Golfo. Difficilissimo farlo altrove. Certo ci sono i libri di storia. Quelli che raccontano che già gli etruschi si alimentavano con questo speciale “cibo”. Libri che ci rimandano ai primi anni dopo Cristo quando il cuoco Apicio parlava di qualcosa di simile alle lasagne. E a Marco Polo, di cui si dice che avesse importato la pasta dalla Cina. E che dire dei “maccaroni siciliani”, probabilmente giunti nel Sud Italia dai paesi arabi, dove ancora oggi si parla di “makkaroni”? D’accordo, c’è la storia. Con quella bisogna fare i conti facendo il classico balzo all’indietro nel tempo. Fino ad arrivare nel ’600, secolo importante per l’industria pastaria “made in Naples”, perché quegli anni salutano la nascita del primo torchio meccanico. Partenope, nel XVII secolo, era la città dei viceré, la culla di Masaniello, sconvolta da rivolte e pestilenze. La città era cresciuta, la popolazione aumentata. La situazione alimentare aggravata: come fare a sfamare tutti? Ecco la rivoluzione che cambia il mondo. Prima la diffusione della gramola, poi l’invenzione dei torchio meccanico. Un macchinario innovativo per quei tempi, perché consentiva di produrre pasta a basso costo. Fu grazie al torchio che la pasta si trasformò nell’elemento base per l’alimentazione popolare. La vicinanza del mare fece tutto il resto. L’essiccazione, infatti, processo che consentiva la conservazione di penne e vermicelli anche per un lungo periodo di tempo, era garantita dal clima salubre della città del Golfo. Napoli indossò allora, per la prima volta, i panni della regina incontrastata della pasta. “Chi mogliera vuol pigliare/ E fan buono il desinare/ Deve fare un calderon/ Tutto pien di Maccheron” scriveva il celebre sciupafemmine Giacomo Casanova, nel 1734, pensando ai succulenti piatti di maccheroni assaggiati in una delle tante taverne affacciate nei vicoli di Partenope. Trascorrono gli anni. Si arriva al XIX secolo. Data fondamentale per i destini di spaghetti e pennette. Sì, perché è agli inizi dell’Ottocento che la pasta incontra per la prima volta il pomodoro. Uno sposalizio perfetto, di quelli destinati a passare alla storia. La pianta era stata importata in Spagna dall’America, dai conquistatori del Nuovo Mondo, fin dal ’500. Poi si era diffusa in tutto il Continente, trovando il clima ideale nei paesi del bacino mediterraneo. Napoli, innanzitutto e i campi dell’Agro Nocerino Sarnese dove la coltivazione del pomodoro diventò, ben presto, uno dei tratti peculiari dell’area. L’arrivo della pianta sconvolse tutto e tutti, trasferendosi ben presto in cucina, dove divenne l’elemento base per la preparazione di squisitissime e inimitabili salse.[charme-gallery]Bollita in pentola con un pizzico di sale e qualche foglia di basilico, la speciale miscela fu utilizzata a poco a poco dai venditori del Sud per condire pizza e maccheroni. Un trionfo. Che sugellò la fortuna di Napoli e della Campania a tavola, trasformandole in capitali mondiali della pasta. Nel 1840, alcuni maestri amalfitani diedero vita a una vera e propria industria della pasta, trasferendo armi e bagagli a Torre Annunziata. Ci pensò, poi, Voiello, uno svizzero trapiantato alle falde del Vesuvio (dove aveva trovato l’amore), a radicare ancor di più quest’arte nella città di Poppea. I molini di Oplonti funzionavano ad acqua, quella portata a valle dai canali del fiume Sarno. Le macine erano di pietra e le semole venivano separate dalle crusche mediante setacci scossi a mano dalle provette mani degli operai. L’esportazione di pasta compì in quegli anni passi da gigante e i preparati torresi, stipati a bordo di veloci velieri, iniziarono ben presto a solcare le onde dell’oceano, andando alla conquista dei mercati americani. Principale rivale di Torre Annunziata nella lavorazione della pasta era la vicina Gragnano, perla dei Monti Lattari dove, fin dal ’500 si producevano lavorati simili ai maccheroni. Nei secoli successivi la produzione della pasta di Gragnano si sviluppò sempre di più, fino a raggiungere l’apice intorno al 1861 quando si calcola che quasi il 75% della popolazione attiva fosse impegnata nell’industria della pasta.  Nel 1885 la rete ferroviaria raggiunse la cittadina dei Lattari consentendo, così, un più rapido e più efficiente spostamento delle persone e soprattutto delle merci (grano, semola, pasta). Nel 1878 fu introdotto in fabbrica un nuovo tipo di macchinario inventato a Marsiglia, che sostituì i vecchi setacci a mano, migliorando la resa della farina: la semolatrice. Nel 1882 nacque anche la prima pressa idraulica e due anni dopo spuntò fuori il primo mulino a vapore. Era la rivoluzione industriale. Quella che fece compiere il fatidico salto di qualità alla “regina” della tavola. Cambiarono anche le trafile e la pasta assunse così sempre nuovi e più fantasiosi formati. Nell’Ottocento i pastifici della Terra Felix producevano più di duecento tipi diversi di pasta, tra lunga e corta. Alcune varietà come lasagne, ziti, penne, vermicelli e spaghetti, autentici fiori all’occhiello della produzione gragnanese e torrese, entrarono ben presto a far parte della tradizione culinaria di mezzo mondo. Ancora oggi gran parte delle circa 180 ditte produttrici di pasta si trova in Campania, soprattutto nelle province di Napoli, Caserta e Salerno dove la pasta rappresenta un alimento fondamentale della tradizione gastronomica. L’inizio del ’900 salutò l’avvio dell’essiccazione artificiale in ambienti condizionati. La produzione della pasta iniziò a diffondersi in tutte le regioni, valicando i confini della Campania e salutando, invia definitiva, la nascita della vera e propria “industria della pasta”, simbolo del made in Italy nel mondo.