Le leggende sulla cattedrale sorta sul tempio di Apollo

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C’era una volta un mercante perugino, “venuto a Napoli a comprar cavalli”, che si ritrovò per caso nella più maestosa cattedrale della città. Accompagnato da due loschi individui, il malcapitato ebbe la fortuna di avere tra le mani nientemeno che un rubino appartenuto all’Arcivescovo partenopeo Filippo Minutolo. Se non fosse che quel prezioso anello dovette trafugarlo dal dito dell’alto prelato, sepolto nella cappella di famiglia.

Il mercante baciato dalla dea bendata si chiamava Andreuccio da Perugia e la sua odissea è solo una delle leggende legate al Duomo di Napoli. Si dice, infatti, che Giovanni Boccaccio durante il soggiorno napoletano alla corte angioina avesse tratto ispirazione per una delle novelle più famose del Decameron, proprio dalla visita alla cappella Minutolo, dove il “cupido” Andreuccio era entrato in possesso di un tesoro “il quale valeva oltre cinquecento fiorini”. Fantasia? Leggenda? Realtà? Fatto sta che, da secoli, l’imponente basilica voluta da Carlo I D’Angiò nel 1266 non ha mai smesso di ammaliare i visitatori. Il Duomo sorge sui resti del tempio di Apollo, nume tutelare della colonia fondatrice di Partenope. Si trattava del primo luogo dedicato al culto pagano che sopravvisse fino al IV secolo, quando vi sorse la chiesa costantiniana; fu il vescovo Stefano, al principio del VI secolo, a fondare il santuario a cui diede il suo nome (Stefanìa).

Ma a gettare le fondamenta dell’attuale Duomo fu re Carlo d’Angiò, che tanta opera fece mettere nella costruzione della cattedrale, affinché fosse simbolo della fioritura artistica e culturale del Regno. Del vecchio nucleo della basilica oggi resta solo la pianta a croce latina, a tre navate. Sia per il suo valore artistico che per quello mistico, nella magnificenza complessiva della cattedrale spicca la cappella del Tesoro di San Gennaro, dove, fino al 1980, avveniva il miracolo della liquefazione del sangue. [charme-gallery]La sua costruzione, che risale al 1527, fu un ringraziamento al patrono per aver liberato Napoli da tre flagelli: il colera, la guerra franco-spagnola e l’eruzione del Vesuvio.

Per volontà del popolo nacque così la devozione al martire, di cui sono custodite nella chiesetta le reliquie e il tesoro, dono di nobili e imperatori. “Ad affrescare la cappella – spiega Paolo Jorio, direttore del Museo di San Gennaro – furono inizialmente i grandi pittori emiliani, dal Cavalier Arpino a Guido Reni, al Domenichino”. Artisti a cui sono legati vari aneddoti curiosi. Si racconta, infatti, che molti di loro avessero deciso di allontanarsi da Napoli per le minacce lanciate dai colleghi locali. Tra tutti, il più sfortunato fu il Domenichino che, avendo deciso di far ritorno a Napoli, dopo essersi allontanato con la sua famiglia, vi morì avvelenato.

Attorniata dai busti dei 51 santi compatroni di Napoli, sull’altare maggiore della cappella c’è la statua di San Gennaro che protegge le due teche in cui sono custoditi il suo cranio e il suo sangue. Uno sguardo al soffitto, che domina tutti i capi, regala la visione dell’affresco di Luca Giordano raffigurante il santo in gloria. Dalla terza cappella della navata sinistra si accede, infine, ai resti della basilica di Santa Restituta. Edificata nel IV secolo d.C. dall’imperatore Costantino, rappresenta la più antica basilica paleocristiana di Napoli.

Delle cinque navate che costituivano l’impianto originale, ne sono rimaste due che sono attualmente adibite a cappelle. Il pavimento lascia intravedere i resti delle colonne di antichi templi pagani. La basilica di Santa Restituì venne restaurata agl’inizi del XVII secolo dall’architetto Arcangelo Guglielmelli. Come per la Cappella di San Gennaro, anche qui il soffitto è adorno di uno splendido affresco di Luca Giordano, in cui il corpo esanime della santa viene trasportato in barca dagli angeli verso l’isola di Ischia.