Pasqua, a tavola festa con resurrezione del palato (terza parte)

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(segue da seconda parte)… Antica, anzi, antichissima è anche la minestra maritata, un altro dei piatti clou della cucina napoletana. Buona e saporita da mangiare a Pasqua, ma anche, perché no, a Natale. Si chiama così perché i suoi ingredienti principali, la verdura e la carne, “si sposano” tra loro. A quanto pare questa succulenta bontà avrebbe sul groppone qualcosa come duemila anni dal momento che una minestra simile si troverebbe già citata nel “De re coquinaria” (l’arte della cucina) del gastronomo romano Marco Gavio Apicio (vissuto tra il 25 a.C. e il 37 d.C.). Tuttavia, la versione più comune vuole che a Napoli, per preparare questo piatto, ci si sia ispirati a una ricetta di origine spagnola detta “Olla Potrida” che i dominatori iberici portarono in riva al Golfo agli inizi del XIV secolo. E all’antica Roma sembra rimandare anche un altro celebre piatto delle feste pasquali, anche se la sua più giusta “collocazione” sarebbe più a ridosso del Carnevale. Stiamo parlando del “Migliaccio”, dal tardo latino “miliacius”, pane di miglio che i documenti dell’annona, fino a circa un secolo fa, classificavano come “pane dei poveri”. I contadini più ricchi, quelli cioè che avevano i soldi per allevare il maiale, ne mescolavano l’impasto al sangue del maiale ricavandone un piatto per stomaci forti. Fu nelle cucine dei conventi napoletani che a metà del ‘700, questo particolare mix alimentare si liberò del truculento ingrediente e si trasformò nel dolce elegante e saporito ancora oggi noto per la sua compattezza e la sua morbidezza.[charme-gallery]Dal punto di vista simbolico, il migliaccio, al pari dell’uovo pasquale, simboleggia la vita che risorge a primavera passando dalla morte dell’inverno. Dentro, infatti, ci sono il grano, il latte, l’uovo, il cedro che è segno biblico per eccellenza della bellezza. Un altro dei piatti leggendari della festa di Resurrezione, è il “coniglio all’Ischitana”, probabilmente il simbolo più noto dell’Isola Verde a tavola. Quasi un marchio di fabbrica della bomboniera del Golfo. Si tratta di una specialità addirittura leggendaria che, secondo la tradizione, sarebbe stata importata nelle colonie della Magna Grecia dai Siracusani quando, circa 2.500 anni fa, approdarono sull’isola di Ischia, un lembo di terra che a quell’epoca offriva una vera e propria sovrabbondanza di questi animali. Nel corso dei secoli la celebre ricetta ha subìto numerose modifiche tra cui la cottura del coniglio con i pomodorini, giunti sul Vecchio Continente solo dopo la scoperta delle Americhe, nel 1492. E chiudiamo questa prelibata carrellata dei gusti pasquali con un piatto che più napoletano non si può: la “zuppa di cozze del giovedì santo”.Un’usanza tipicamente napoletana (fuori dalle mura dell’antica capitale del Regno delle Due Sicilie è poco diffusa) che si fa risalire a re Ferdinando I di Borbone. Si narra, infatti, che il sovrano fosse molto goloso di questi gustosissimi frutti di mare, che lui stesso si preoccupava di andare a pescare a Posillipo, passandoli poi ai cuochi di corte affinché glieli cucinassero come piacevano a lui. Poi accadde che un frate domenicano lo ammonisse piuttosto duramente per questa “passione culinaria”, invitandolo a non commettere più peccati di gola almeno durante la Settimana Santa.[charme-gallery]Ferdinando se la legò al dito, ma non si perse d’animo. Per non rinunciare a mangiare la sua gustosa zuppa, ordinò ai suoi cuochi di cucinarla lo stesso, ma solo per il giovedì Santo, prima cioè del tradizionale “struscio” di via Toledo, la celebre camminata introdotta a Napoli negli anni del Viceregno a imitazione della regal passeggiata della famiglia reale (i fedeli erano costretti a camminare a piedi e, poiché la folla era numerosa, il passeggio divenne lento e si procedeva strusciando letteralmente i piedi a terra). Fu da allora, che la zuppa di cozze divenne un piatto tipico della cucina napoletana, ancora oggi gettonatissimo sulle tavole dei figli di Partenope.